domenica 17 novembre 2013
Frappè
Marco si è fabbricato con poca perizia uno di quegli stupidi cappellini
fatti col giornale che sembrano barchette di carta e continua ad armeggiare con
la cazzuola. Ha lo sguardo perso nel vuoto di chi si trova dove non dovrebbe
essere di chi ha l’intima convinzione di trovarsi nel posto sbagliato nel
momento sbagliato a fare qualcosa che non è affar suo. Ripete con meccanica
rassegnazione gli stessi gesti da mesi, ha paura a contare in anni quella non
vita, non si sente utile, non apprezza quel che fa e si presenta ogni mattina
con quei 10 minuti di anticipo che tradiscono la tristezza di chi non ha niente
di meglio da fare che andare a condurre una vita che non sente propria. Non è
stanco, lavorerebbe il doppio del tempo se gli fosse richiesto, non si distrae,
non gli interessa il resto come non gli interessa sé stesso. Guarda il solito
parco dall’altra parte della strada e si accontenta di constatare che ci sono i
soliti ragazzi che corrono, la solita vecchia rincoglionita con quei 3 cani che
abbaiano senza che lei proferisca verbo, il solito addetto alla manutenzione
che sbriga la solita routine e il solito vecchietto sulla solita panchina con
il solito pacco di giornali che non gli ha mai visto leggere. Marco continua a
lavorare con la sua odiosa cazzuola e quella specie di pasticcio grigio,
continuerà finchè qualcuno non gli chiederà una mano a portar su dei mattoni o
a montare un infisso, poi tornerà al suo impiego senza batter ciglio, senza
neanche chiedersi quale di quei lavori odi di più. La sua vita non è quella
roba pastosa che non sa nemmeno se è malta, cemento, strutto o un frappè, non è
quella cazzuola che non si spiega perché e per come ha questa forma idiota, non
è affar suo quel paio di scarponi di sicurezza in cui sta morendo dal caldo, al
limite può riconoscere come suo quello stupido cappellino di carta che porta al
posto del casco. Non gli importa di cadere, lo si capisce dai movimenti, evita
il casco forse sperando in una di quelle situazioni in cui avrebbe potuto
salvargli la vita. Quello sguardo tradisce i rimpianti per qualcosa che poteva
essere e non è stato per quel sogno di diventare il nuovo eroe dell’Italia del
2000, quello che segna su punizione nella finale dei mondiali. La sua non è la
storia triste di un ragazzino fenomeno azzoppato da una macchina o da un
macellaio in qualche campo di Eccellenza; lui non è uno di quelli bravi davvero
ma che hanno avuto la sfiga di fare il trasferimento sbagliato nel momento
sbagliato e han perso il treno giusto; lui non è uno di quelli bruciati da
qualche procuratore piratesco che andando all’arrembaggio l’ha portato ad
affondare nei campetti di periferia. Gli si legge negli occhi, non è scalfibile
la sua certezza di essere ognuno di questi campioni. Ma Marco è semplicemente
un ragazzo scarso. E’ uno che c’ha provato e non c’è riuscito. Non è bravo, non
può giocare in serie A, e dire che c’aveva creduto, continuando a giocar male
anche quando era finito in TV acclamato da tutti nell’ennesimo reality show che
macina fenomeni da baraccone manco fosse un mulino. Serate in discoteca,
autografi, donne, quel televoto che lo consacrò ad eroe nazionale, che lo fece
sentire arrivato, che lo convinse di essere il calciatore che non era. La
storia con quella velina, quella del calendario, beccata dal paparazzo di turno
in ginocchio dal politico di turno; quel tavolo sempre libero al Billionaire
dove circolavano amici di quelli che ti danno una pacca ti presentano tanta
gente giusta, tirano al tuo tavolo, bevono quel che offrii e ti salutano “ciao
Matteo”; c’era quel Porsche Cayenne che lo costringeva a strani tragitti per
non far notare che la patente l’aveva presa regalando una maglia all’ingegnere
della motorizzazione; c’erano quegli inviti a Buona Domenica dove ogni
settimana c’era da mettere in ginocchio la strafica di turno, questa volta
quella degli altri, non la sua; c’erano i soldi, che riuscivano ad uscire
esattamente allo stesso ritmo a cui entravano, quasi che qualcuno si stesse
occupando proprio di far “quadrare i suoi conti”. Oggi non c’è più niente di
quel mondo inutile quanto fiabesco, onirico ed al tempo stesso alienante, oggi
c’è Marco, la sua cazzuola, quella specie di frappè e quello stupido cappellino
che racconta più di ogni parola che la morte non lo spaventa solamente perché
ha già vinto sulla sua vita.
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